Re Chicchinella
- Federica D'Isita
- 2 feb
- Tempo di lettura: 2 min

Il pubblico vocifera per ingannare il tempo.
Un gruppo di galline appare improvvisamente sul palco dando inizio allo spettacolo. Una scena corale che, oltre a mostrare il carisma degli attori, sarà la chiave di lettura di tutta la storia.
Protagonista del dramma è un re malato (interpretato da un talentuoso Carmine Maringola), incapace di essere sovrano, ma anche un uomo normale. Dentro di lui, infatti, vive una chicchinella che lo tormenta senza sosta, obbligandolo a covare uova d’oro ad ogni pasto che l’imperatore ingurgita. Inutile il tentativo dei medici di guarirlo, il monarca è spacciato e la gallina è bloccata dentro il suo stomaco.
Al re, quindi, non resta che vivere, o meglio sopravvivere. Ma non seduto comodamente su un trono come il re di Calvino che guarda silenzioso e immobile il suo regno.
Sua maestà si contorce, urla, piange, sbraita e quando non proferisce parola è la sua fisicità a parlare per lui. Attraverso il corpo passa ogni cosa: il rammarico di chi sa che le feste e le baldorie sono finite e la paura di chi ha compreso che è solo e non sa che farsene di una esistenza vacua. Così l’uomo tenta in tutte le maniere di sbarazzarsi dell’animale che ormai fa parte di lui, la sua nemesi che implicitamente gli mostra la vera natura delle cose, tra cui l’autodistruzione.
A fargli compagnia una figlia premurosa e una moglie che detesta (interpretate dalle straordinarie Angelica Bifano e Annamaria Palomba), entrambe avide di tutto quell’oro prezioso che esce dall’orifizio del sovrano. Attorno a loro fa da sfondo una corte grottesca, buffa, primitiva, composta da voci, suoni, gesti che vivono in maniera animalesca e ripetitiva sulla scena. Ecco che il castello in un attimo si trasforma in una gigantesca piazza rumorosa e i cortigiani in tante chicchinelle che beccano sull’asfalto all’unisono, forse non poi così distanti dalla nostra società odierna.
La fine non può che essere tragica. La morte del sovrano porterà alla luce il suo antagonista, la famosa gallina, recintata dalle panche d’altare e dai suoi eleganti messi in preghiera, ingabbiata come il re quando era in vita. Finalmente entrambe le facce della stessa medaglia si svelano, mostrando due corpi che, seppur diversi, vivono la stessa complicata esistenza.
Emma Dante ha saputo creare un teatro fisico, intenso, ironico, scandito dal movimento dei corpi che si intrecciano tra di loro creando una danza macabra e triste.
Il pubblico non può non sentirsi coinvolto. La platea partecipa, ride e si commuove, valicando il tema del doppio che pervade tutta la storia.
Le luci si riaccendono e sembra siano passati solo pochi secondi. Gli applausi generosi della sala si prolungano per svariati minuti.
Questo è il teatro di cui abbiamo bisogno: fisico, emotivo, in continuo dialogo con la letteratura, come una freccia che fende l’aria andando verso una direzione ben precisa, quella del cuore.
Federica D’Isita
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